Il mite e umile consigliere Jakòv Petrovic' Goljadkin non è quello che sembra: vive in lui un doppio, un "sosia". Il suo io non è un tutto compatto e unico, bensì un mobile e disintegrabile complesso di impulsi che possono scindersi in altri io, tra loro in alternanza e in conflitto. Il suo sosia non è semplicemente una persona tanto somigliante a lui da poter essere per lui scambiata, ma, come dice la parola russa dvojnik, è la proiezione di un io in un altro io autonomo rispetto al primo. Esistono nel romanzo due Goljadkin che si completano in quanto totalmente opposti: uno timido e sottomesso, l'altro furbo e arrivista. E Goljadkin, come spiega Vittorio Strada nell'introduzione, è "la patologia dell'uomo qualunque, il primo gradino di quello 'sdoppiamento' che costituisce la malattia dell'uomo moderno".
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Questo libro è la rappresentazione di cosa accade quando si chiede ad un introverso di cambiare, di essere più socievole e di "saper lucidare i pavimenti con gli stivali".
Goljadkin è, per sua stessa ammissione, un piccolo uomo che indossa la maschera solo alle mascherate e la trama del racconto parte dalla richiesta, del suo medico, di essere più aperto, di "fare violenza al vostro temperamento". Da qui si dipana una matassa che porta il povero Goljadkin ad essere completamente sostituito dal suo sosia, un uomo perfettamente uguale a lui, ma così come il mondo lo pretende: affabile, socievole e profondamente falso.
Morale della favola? Lasciate i poveri introversi in pace, noi stiamo bene a casa con la nostra copertina e la nostra tisanina.