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Yu-jin si sveglia una mattina nel proprio letto ricoperto di sangue. Non solo il suo corpo, ma tutta la stanza ne è imbrattata. Lui non ricorda quasi niente della notte appena trascorsa, solo di essere uscito a correre per distendere i nervi. O meglio, di essere sgattaiolato fuori di casa visto che sua madre non deve sapere delle sue scappatelle notturne. Yu-jin ha ventisei anni e vive con lei e il fratello adottivo Hae-jin in un appartamento all’ultimo piano di un residence di Gundo, nella moderna periferia di Seul. Da quando sono morti il padre e il fratello maggiore, Yu-jin segue una terapia di psicofarmaci che tiene a bada l’epilessia di cui soffre, ma che gli procura terribili effetti collaterali: emicranie atroci, acufeni, attacchi di rabbia. E vuoti di memoria. Ecco perché non ricorda cosa sia successo per ritrovarsi in quello stato. Quando cerca di ricostruire gli eventi della notte precedente, Yu-jin, esplorando l’appartamento, trova in cucina il cadavere della madre con la gola tagliata, e quando poi un orecchino di perla gli scivola fuori dalla tuta indossata per correre, Yu-jin è terrorizzato.
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Un thriller carino, non mi ha lasciato granché come impatto, ma ho trovato molto più interessante la serie di scene che descrivono, o meglio, lasciano intendere, le ripercussioni emotive delle scelte e dei pensieri dei personaggi. Mi riferisco a quelli secondari, nella fattispecie la madre. La parte imprevedibile è stata questa, perché mi aspettavo un rapporto tremendo tra lei e il protagonista, una madre terribile, tossica e quant’altro (ma nel senso che fosse descritto: la madre effettivamente è tossica in qualche modo, semplicemente si vede poco); tutti elementi che, invece, almeno io, non ho percepito, forse perché doveva arrivare al punto di svolta dal punto di vista della madre: è quello che cambia e che porta a riflettere. A livello di tensione, personalmente le scene mi hanno sorpresa, ma l’impatto, di nuovo, non è stato intensissimo.